Intervista al Prof. Italo Pantani su Giusto de’ Conti, autore de La bella mano

Di recente la città di Valmontone ha deciso di omaggiare un illustre cittadino del passato, l’umanista e poeta di epoca quattrocentesca Giusto de’ Conti, con l’allestimento della Passeggiata contiana: un itinerario di cinque panchine letterarie recanti altrettanti sonetti tratti dal canzoniere da lui composto, La bella mano.L’assessore alla cultura, il dott. Matteo Leone, si è prodigato per realizzare al meglio il monumento letterario, ricorrendo alla competenza del prof. Italo Pantani, massimo conoscitore dell’opera di Conti, per selezionare i testi da riprodurre sulle panchine.

Il personaggio storico di Giusto e la sua opera, perlopiù sconosciute ai tempi d’oggi, hanno destato vivo interesse in paese. Per soddisfare le attese dei più curiosi, siamo andati a parlarne con il prof. Italo Pantani, docente e studioso di poesia umanistica all’Università Sapienza di Roma.

Professore, in uno dei suoi studi su Giusto de’ Conti ha definito il poeta di Valmontone «un protagonista della poesia italiana del ‘400». Considerata la modesta fortuna avuta dalla sua opera negli ultimi secoli,si tratta di un’espressione iperbolica, con pura finalità retorica, oppure possiede un fondamento storico e documentario?

«Non si tratta di un’espressione iperbolica: basti pensare che Marco Santagata, il più grande studioso di lirica italiana degli ultimi decenni, ben prima di quella mia formula ha definito Giusto «il Pietro Bembo del Quattrocento», per l’importanza che il Conti ha avuto nella storia del petrarchismo italiano. Immagini, situazioni e locuzioni liriche contiane furono riprese da molti poeti oggi più noti di lui, come Boiardo, Sannazaro, e tanti altri. Dopo un’imponente diffusione manoscritta e cinque edizioni tra XV e XVI secolo, ancora nel XVIII secolo il suo canzoniere fu ristampato tre volte, con annotazioni esplicative e biografia introduttiva realizzate da famosi eruditi dell’epoca. La «modesta fortuna» contiana è figlia della più generale disgrazia incontrata dalla letteratura classicistica con l’avvento del Romanticismo».

Meriterebbe, a suo parere, di essere inserito nel canone scolastico?

«A dire il vero, Giusto nel canone scolastico è già presente, anche se con uno spazio minimo. Le antologie meno superficiali contenevano, e alcune ancora contengono, un sonetto del Conti come esempio tra i primidi affermazione dello stile poetico petrarchesco: una prospettiva critica del resto ormai limitativa. Purtroppo però le recenti riforme scolastiche, per riservare agli ultimi due secoli il massimo dell’attenzione, hanno gravemente penalizzato l’accesso allo studio della nostra tradizione letteraria anteriore, ben più prestigiosa. Opere importantissime a livello europeo sono oggi assenti dai manuali scolastici più diffusi: difficile immaginare un’inversione di tendenza proprio per Giusto. Tuttavia, gli studi più recenti stanno a tal punto rivalutando il ruolo storico e l’abilità poetica del Conti, che si può sperare di trovare nelle migliori antologie del futuro uno spazio costantemente dedicato alla sua opera, per quanto contenuto».

Qual è l’origine del titolo La bella mano e perché il poeta esalta proprio questo particolare del corpo femminile?

«Questo titolo non compare mai nei manoscritti più autorevoli del canzoniere di Giusto: trascritto spesso senza intestazione, o preceduto talvolta dalla formula Sonetti e canzoni, molto diffusa nel Quattrocento. Il titolo La bella mano compare nella prima edizione dell’opera, realizzata a Bologna nel 1472, oltre vent’anni dopo la morte del poeta. Dunque, probabilmente, non fu deciso dall’autore, ma da chi curò la princeps: forse l’editore Malpigli, o forse il Refrigerio, un poeta ben noto che compose il sonetto in lode di Giusto che introduce l’edizione. Va detto tuttavia che si tratta di un titolo particolarmente indovinato, in quanto la mano dell’amata è veramente la protagonista del canzoniere. Ma lo è non solo perché affascina il poeta in quanto «bella e bianca», «soave», «dolce» o «legiadra»;ma anche perché essa, «crudele», con la sua indifferenza lo «tiene in croce», il «cor gli inchioda», ne porta stretta «la carne e l’ossa, la vita», ne «afferra il cuore», fino a indurlo al definitivo distacco».

Quanto c’è di vero nella storia d’amore narrata nel canzoniere e nella figura di Isabetta Bentivogli? Dobbiamo considerarla una finzione letteraria o un’esperienza realmente vissuta dal poeta amante?

«L’amore di Giusto per Isabetta fu un fatto pubblico, ben noto ai suoi contemporanei: e alcuni, come il poeta e funzionario urbinate Angelo Galli, ce ne hanno lasciato testimonianza. Tuttavia, non possediamo sufficienti informazioni sulla vita del Conti per avventurarci nel suo animo. Non sappiamo neppure se la sua Isabetta fosse veramente Isabetta Bentivogli, come sostenuto dal Frati: non mancano interessanti dati a supporto, ma un amore indirizzato a una simile nobildonna da parte di un cubicolario pontificio può far pensare a una poesia ancora guidata dagli statuti dell’amor cortese, rimasti ben vivi almeno per tutto il Quattrocento. D’altra parte, i toni inizialmente celebrativi, ma poi esasperati e aggressivi della lirica di Giusto non si conciliano con un’esperienza puramente astratta».

Relativamente alle panchine letterarie, perché la scelta è ricaduta su questi cinque sonetti?

«Purtroppo per le panchine letterarie non erano adatti i lunghi ternari e il polimetro che chiudono il canzoniere contiano, e che probabilmente ne rappresentano i capolavori. Tuttavia, la Bella mano segue un percorso narrativo abbastanza riconoscibile, concluso dal testo che precede i ternari, e scandito da componimenti particolarmente rilevanti, tra i quali ho scelto quelli che oggi si leggono sulle panchine. Tra i testi iniziali, rinunciando al n. 1, ho privilegiato il più significativo n. 3, con cui Giusto celebra la nascita dell’amata come capolavoro della Natura e di Dio, ricorrendo a categorie neoplatoniche mai prima utilizzate in modo così consapevole. Ho invece regolarmente proposto il sonetto conclusivo, che nella mia edizione avrà il n. 141, e nel quale il poeta si rivolge al proprio libretto invitandolo a presentarsi all’amata, a cui riferirà della sua stanchezza, dovuta a una ormai perpetua lontananza, che lo costringe a porre fine alla poesia, pur confermando la fedeltà amorosa. Gli altri tre testirappresentano tre tappe fondamentali della parabola narrativa e stilistica dell’opera, e tre situazioni nuovissime nella tradizione lirica italiana. Il secondo, n. 43, contrappone l’ormai riconosciuta, crudele indifferenza dell’amata, le cui mani si sono già rivelate strumenti di tortura, alla decisa volontà del poeta di restare fedele a un amore che può solo nutrirsi di ricordi, memorie dei tempi in cui ella gli si rivolgeva con vezzi e sorrisi. Nel terzo, n. 89, il poeta chiede all’amata di smettere per sempre di rivolgergli sorrisi, sguardi, sospiri e lusinghe, che si rivelano sempre più falsi, data la sua indifferenza verso il dolore che producono: anche perché può star tranquilla che il poeta, pur volendo, non riuscirà a liberarsi dalla passione per lei. Il quarto, n. 107, rappresenta la svolta cui va incontro l’animo del poeta dopo il forzato distacco dall’amata: rimasta a Bologna, mentre egli si è dovuto spostare a Ferrara e Firenze, al seguito di papa Eugenio IV. Il distacco, infatti, ridimensiona il risentimento e suscita la nostalgia. Ogni dettaglio del paesaggio suscita il ricordo dell’amata e di ogni particolare della sua figura: in tal modo, le visioni di Laura descritte da Petrarca dopo la morte dell’amata diventano in Giusto ossessivo ricordo di una donna vivente. Piano piano, nel poeta rinasce il sentimento d’amore: vissuto però da lontano, sostenuto dal solo ricordo di gesti e voci di lei, ma anche sempre minacciato dalla consapevolezza della sua indifferenza».

Com’è nato in lei l’interesse per il nostro concittadino Giusto de’ Conti?

«Nella mia prospettiva, casualmente: lo studio di Giusto mi fu proposto nel 1986 dal professore Amedeo Quondam, a cui avevo chiesto una tesi di laurea da dedicare possibilmente a un lirico del medioevo, il periodo letterario che allora più mi interessava. All’epoca, non conoscevo la poesia contiana, né compresi a una prima lettura quali motivi d’interesse potesse suscitare. Solo di recente ho notato che l’importanza di Giusto era stata appena due anni prima, nel 1984, posta in risalto da Marco Santagata, che senza dedicare al Conti studi specifici lo aveva riconosciuto modello di ampia parte della lirica a lui contemporanea e immediatamente successiva: la proposta di Quondam probabilmente nasceva da lì».

Che cosa apprezza personalmente della poesia di Giusto?

«Per molti anni, l’aspetto che più mi ha attratto dell’opera di Giusto non è stato il valore poetico, ma lo stato di abbandono in cui si trovava, e quindi la possibilità di farla rivivere con i miei studi, di far riemergere le qualità che le avevano garantito un successo plurisecolare, e di riscoprirne i tratti che la caratterizzano, distinguendola dai modelli (soprattutto Petrarca) su cui era stata sempre più appiattita. Pian piano ho però imparato ad apprezzare questi aspetti anche su un piano estetico, fino a definire capolavori alcuni componimenti inconfondibilmente contiani: come il sonetto 30, in cui Giusto si mostra ridotto «qual insensato» di fonte alle bellezze dell’amata; o il feroce magico rito con cui nel ternario 143 chiede libertà e vendetta alle forze oscure; o la pacificata, platonica visione del ternario 150».

Per concludere, speriamo possa darci qualche anticipazione sull’avanzamento degli studi contiani negli ultimi anni, in attesa della pubblicazione del volume da lei curatoCome io stirpo le sue piume. Nuovi studi contiani.

«Dopo il convegno tenutosi a Valmontone nel 2006, i miei studi di pertinenza contiana si sono soffermati su alcuni aspetti importanti riguardanti la vita dell’autore, i caratteri della sua poesia, la tradizione e la fortuna della sua opera. Dati nuovi di carattere biografico, ancora inediti, sono emersi da un più attento esame dei documenti relativi alla carriera universitaria del Conti presso l’Università di Padova, fra il 1433 e il 1438; in modo parziale ho invece già pubblicato le ordinanze emesse dal poeta mentre ricopriva la carica di Tesoriere pontificio nella Marca Anconetana, tra il 1446 e il 1447. I risultati non sono soltanto di pura erudizione, in quanto sono emerse alcune sottoscrizioni autografe di Giusto, che ci permettono di escludere l’autografia di qualsiasi testimone manoscritto delle sue rime. Uno studio specifico ho dedicato al già citato ternario 143, molto importante anche per la geniale ripresa di contenuti delle Bucoliche virgiliane. Riguardo alla fortuna delle rime contiane, misurata evidenziando il riuso di sue tipiche espressioni compiuto dai poeti successivi, il risultato più importante finora da me pubblicato è la proposta di riconoscere proprio Giusto da Valmontone nel pastore Montano dell’Arcadia di Sannazaro. Accanto a queste ricerche, il volume accoglierà molti altri dati già raccolti e ancora inediti, che confermeranno ulteriormente l’importante ruolo svolto dal Conti nella tradizione poetica italiana».

Articolo a cura di CIPRARI & SARACINI

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