Luigi Acciarito, una storia lunga un secolo

Luigi Acciarito, classe 1922, è arrivato alla straordinaria impresa di spegnere la centesima candelina nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, della sua straordinaria memoria, del suo carattere forte, volitivo, a tratti severo.

Ultimo figlio di una famiglia di modeste condizioni, come la maggior parte sul territorio artenese dell’epoca, dopo aver frequentato le prime cinque classi della scuola dell’obbligo, per imparare a leggere e far di conto, trascorre la sua infanzia in campagna ad aiutare nonni e padre nei lavori della vigna e nell’accudimento delle poche bestie necessarie al sostentamento della famiglia. All’età di 16 anni inizia a lavorare nello stabilimento di Colleferro, seguono le prime esperienze da manovale per affinare successivamete le sue abilità di ‘mastro’ e diventare un bravo e ricercato muratore.

E se c’è una cosa che si può dire di nonno Gigetto è che nella sua vita ha ‘costruito’ davvero molto, sia in senso letterale che metaforico. Anzitutto una bella famiglia dall’unione con la sua amata Luigina, al cui capezzale è rimasto fino a tre anni or sono, per accudirla nella loro casa di cui ha costruito mura e tetto; casa punto di riferimento ancora oggi di tre
generazioni: quattro figli per un totale di quasi trenta persone tra nuore, genero, nipoti e pronipoti. Ha edificato case a figli e parenti, ha costruito case a Roma per anni, ha impastato cemento e messo mattone su mattone anche per costruire pollai, forni, muretti e camini, tutto con le sue mani ma
soprattutto, nel costruire, ha gettato sempre basi solide su cui a lungo abbiamo appoggiato le nostre esistenze: abnegazione, sacrificio, serietà, coerenza e generosità. Insieme alle insalate dell’orto ha regalato consigli; mentre issava pali per sorreggere la vigna è stato lui stesso sostegno; i semi da lui piantati in giardino hanno germogliato dando piante robuste.

Nonno Gigetto ha insegnato molto più con l’esempio che con le parole: non è mai stato un chiacchierone e di parole non ne ha mai sprecate, specialmente quelle per lodi e gli elogi smodati, come spesso accade agli uomini della sua epoca. Ci ha insegnato a non lasciare nulla nel piatto perché c’è gente che muore di fame e lui la fame l’ha sofferta durante tutta la guerra e nel campo di concentramento, tanto da mangiare per la
disperazione le bucce di patate, come per alcuni anni ha raccontato nelle scuole ad alunni attenti ad ascoltare le sue memorie di guerra. Per un lungo periodo credo che di guerra non ne abbia mai parlato, nemmeno del periodo in cui fu fatto prigioniero prima a Rodi e poi portato nel campo di
concentramento in Germania, vicino ad Amburgo.

Ma la curiosità dei nipoti ha sciolto i suoi ricordi e rispolverato un vecchio diario gelosamente custodito nel cassetto del comò, vergato con la sua
bella scrittura, nonostante la scarsa istruzione che ha sempre saputo riscattare col suo acume ed il suo senso pratico delle cose. Oggi i suoi 100 anni sono il suggello di una esistenza lunga, di una vita semplice e parca; l’orgoglio di questo traguardo lo sentiamo molto tutti noi familiari nonostante il suo fisico, una volta agile e scattante, non risponda più adeguatamente alla volontà di un cervello sempre attivo e vigile.

Quando era sulla ottantina, se si trovava a parlare di progetti futuri, era
solito dire: “per quel poco che mi è rimasto da vivere!”; noi non gli abbiamo mai creduto ed il tempo ha dato a noi la ragione e a lui salute e longevità. Non si può certo racchiudere in poche righe una esistenza così lunga ed intensa ma i sintetici tratti qui riportati bastano a delineare la fotografia
del nonno bravo e caro che oggi possiamo festeggiare, consapevoli della grande fortuna che abbiamo avuto, noi e lui. Spegni con orgoglio le tue 100 candeline, Gigetto!

Articolo a cura di CLAUDIA PALONE

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